BORSE FIRMATE: CHI VINCERÀ LA GUERRA?
Le borse firmate sono il punto di partenza e di arrivo di un po’ di ragionamenti che sto facendo in questo periodo.
Complici la quarantena e la crisi non solo sanitaria, ma anche quella finanziaria e lavorativa, che purtroppo ci accompagneranno per un bel po’, cerco di trovare spunti di riflessione e di confronto, soprattutto con te che mi leggi.
Oltre a produrre borse firmate, conto terzi, quindi per altri, sono anni che mi batto per far si che le informazioni finora relegate solo agli addetti al settore, possano invece diventare di dominio di un numero sempre maggiore di consumatori.
Un consumatore informato fa domande e stimola i brand a migliorare, ma non buttiamola troppo sulla filosofia ed approfondiamo un aspetto strategico che è emerso da questo periodo.
Nell’articolo precedente: Chi produce per i brand del lusso?
Ho raccontato le luci ed ombre della narrazione dei brand del lusso e delle loro filiere produttive.
Ho avuto molti feedback e di questo sono sempre molto grata.
Mi sono portata allora un passo avanti e mi sono cominciata ad interrogare su quello che ci aspetta in futuro.
Non ho la risposta in tasca ma dalle sensazioni generali, emerge che si sta cominciando a sviluppare una certa sensibilità verso il prodotto e soprattutto verso chi produce le borse, i terzisti della filiera.
In questo articolo analizzo proprio questo aspetto e come i brand del lusso possono comunicare la tutela della filiera, per rilanciarsi sul mercato ed acquisirne delle nuove. Chi lo farà per primo?
L’etica è di per sé una strategia non solo di comportamento sociale ma anche di comunicazione. Sono anni che i brand fanno a gara a migliorare la qualità di vita nelle loro aziende e per tutto quello che gravita intorno.
Una responsabilità sociale emersa in maniera poderosa dopo anni di scandali e cambi al vertice.
Anni in cui il web ha cominciato a fornire dati sulla “reputazione” e su quello che davvero succedo (davvero o che si racconta).
Il web ha cominciato a pullulare di investigatori e persone che sono interessate a conoscere quello he c’è dietro alle aziende.
Questo comportamento ha portato come risposta diretta, la maggiore attenzione alla responsabilità sociale da parte dei grandi marchi.
Nessuno vuole essere accostato allo sfruttamento del lavoro minorile o all’uso di sostanze dannose per la salute, quando si vendono prodotti da svariate centinaia, di migliaia di euro.
Da lì la narrazione della verità è diventata fondamentale.
Facciamo un passo indietro.
A chi appartengono le grandi firme della moda?
A grandi Holding, multinazionali.
Quelle più conosciute sono il gruppo Kering che detiene: Gucci, Saint Laurent, Balanciaga, Bottega Veneta e molti altri brand non strettamente fashion.
C’è poi Lvmh che detiene: Dior, Louis Vuitton, Fendi, Celine, Givenchy, Loro Piana, Kenzo e ultimo acquisto fatto Tiffany.
Troviamo poi il Gruppo Richemont che detiene: Cartier, Montblanc e Chloè.
Infine va citata Capri Holding che detiene: Michael Kors, Jimmy Choo e Versace.
Restano alcune maison indipendenti come: Prada, Moncler, Armani, Chanel, Hermes, Zegna e Burberry.
Perchè ti faccio questa precisazione?
Se dobbiamo analizzare i comportamenti e soprattutto la capacità di percepire il mercato, la differenza si gioca molto su queso aspetto.
Le grandi società sono quotate in borsa ed hanno interessi che vanno ben oltre quella che è la “semplice” vendita.
Per questo se vogliamo analizzare il periodo storico e cercare di far trarre beneficio a tutto il sistema produttivo della moda, non bisogna dimenticare che le dinamiche in cui si muovono certi gruppi, sono quelle più sensibili ( che non vuol dire più umanE, ma con più sensibilità a certi aspetti da mettere in leva).
Di filiere produttive ho parlato appunto in questo articolo: chi compra il Made in Italy
Assodato che le multinazionali hanno metriche diverse e che ovviamente hanno una responsabilità sociale maggiore, in quanto muovono folle di consumatori, la tutela della filiera produttiva diventa un asset fondamentale e sul quale probabilmente stanno già investendo da anni.
C’è l’altra versione della storia ed è quella che abbiamo vissuto già nelle precedenti crisi di settore, che si sono rincorse più o meno ogni 10 anni e di sicuro sono state di entità inferiore a questa. La versione simile alle altre crisi è quella che narra di grandi firme che per ristabilire l’equilibrio finanziario ed ammortizzare le perdite, tagliano in maniera indiscriminata i terzisti.
Storia conosciuta da molti terzisti che da anni producono per i brand, e che ha negli anni creato quell’odio di settore, che ha relegato i terzista ad un ruolo di quarto ordine del settore produttivo italiano (vedi rispetto all’automobile o il design) o ad essere invisibili quando si tratta di misure di sostegno governative ( vedi i vari dcpm che si sono susseguiti).
La mia parte che spera “in un mondo migliore” mi fa credere che questa volta le cose andranno diversamente e soprattutto che le Holding vedano nella filiera un fattore di riscatto sociale e commerciale.
In questi giorni che si parla di perdita di aziende e posti di lavoro, si sono quantificati i posti di lavoro che si perderanno se i brand del lusso non riusciranno ad arginare una situazione già catastrofica?
Sia ben chiaro, quello che sto dicendo NON è assolutamente la richiesta di aiuto o di soldi ma la razionalizzazione di un problema, che esiste e con cui dobbiamo imparare a convivere.
Si può però, come successo in passato, dare l’onere della causa solo ai terzisti?
C’è un modo per cambiare ed imparare da quello che è già successo?
In questi anni si è vista la propensione forte da parte delle grandi case di moda, di “aiutare” i terzisti a fare il salto imprenditoriale.
Grandi flussi di lavoro, hanno significato miglioramento delle strutture produttive, innalzamento degli standard qualitativi, miglioramento del clima aziendale e capacità di rendere solide le aziende, pagando anche tutto quello che c’era in sospeso ( tributi e così via).
I collaboratori di quelle aziende di produzione conto terzi, si sono sentiti più sereni e tutelati, avendo alle spalle non solo il piccolo o medio imprenditore, ma la grande Holding o la grande firma del lusso.
Alle grandi firme va quindi il grande merito ed il rispetto per aver costruito tutto questo. Merita rispetto in egual modo la filiera.
Ora immagina se domani mattina, il brand, la holding o grande casa di moda che vuoi, dice:
“Abbiamo deciso di riorganizzare la filiera produttiva per non perdere terzisti.
Lavoreranno meno ma tutti. Perché facciamo questo? Sono anni che investiamo per consolidare la nostra rete produttiva, per farla crescere e regalare alle borse che vendiamo un’identità forte, fatta di mani sapienti che tuteliamo anche in questo momento di crisi. Nessuno è costretto a lavorare con noi ma questo è il nostro ringraziamento a chi ci ha dato tanto.” ( è un dialogo immaginario, non ha nessuna fonte se non la mia testolina…)
Ribadisco che nessuno si sente di battere cassa anche perché negli scambi commerciali si pagano le fatture e rispettano i contratti, non si usano le emozioni ma questo non prescinde dal fatto che è un’opportunità comunicativa forte.
Vero è che se esistono leggi che tutelano il sub-appalto è acclarato che il tipo di lavoro sub ordinato ha una componente rilevante di minor forza da un lato, del quale si deve tener conto.
CHI RESTERÀ APERTO ANCORA DOPO IL LOCKDOWN?
Questo è un problema serio che porta con se tante conseguenze e prime fra tutte, la perdita di conoscenze e competenze, valori pregnanti del Made in Italy.
Anni a formare persone e poi?
Tra 5 anni che filiera avremo, avranno a disposizione i brand se non se ne occupano ora?
Questa crisi sta cambiando completamente la nostra percezione e cambierà anche chi compra le borse. Un po’ lo avevano immaginato i brand del lusso e la direzione presa è stata nella direzione di rendere le fabbriche aperte a chi volesse visitarle, per poi comprare prodotti.
La crisi sicuramente alzerà il livello di attenzione verso questi aspetti e non è pensabile che i grandi marchi si producano tutto nelle loro fabbriche.
Avranno bisogno dei terzisti, della filiera e soprattutto di essere riconosciuti dalla massa come etici sempre, non solo nei momenti di marketing. La sostenibilità e l’inclusione, passano necessariamente attraverso la tutela di chi produce.
TUTTI NOI SIAMO CHIAMATI A FARE LA NOSTRA PARTE, NESSUNO ESCLUSO!
Tra qualche anno scopriremo se si sarà tutelato il Made in Italy con la filiera, oppure no. Le borse firmate non cadono dagli alberi e nessuno può avere come alibi la crisi.
Come si dice: ai posteri l’ardua sentenza.
Grazie di avermi letto.
Aspetto i tuoi commenti.
Ornella