
Controllo della filiera moda: strumenti già pronti, basta usarli
LA filiera Moda è in estrema tensione in questo periodo per i numerosi scanali emersi e la reputazione in bilico del Made in Italy.
La recente proposta, avanzata dal Presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana (CNMI), Carlo Capasa, insieme al Tavolo della Moda e il Ministro Adolfo Urso, di affidare a un ente terzo il controllo della filiera moda italiana ha sollevato un acceso dibattito. L’idea è di istituire un albo dei fornitori certificati, con verifiche preventive ogni sei mesi, per garantire la legalità lungo l’intera catena produttiva The Traceability Hub+11FashionUnited+11FashionUnited+11.
Una proposta che appare perfetta sulla carta, ma solleva inquietanti interrogativi: serve davvero un nuovo ente, o rischia di essere solo un altro livello burocratico? In questo articolo, unisco la mia voce, attratta dal tema del controllo reale delle filiere, a quanto emerge dai fatti e dalle analisi più recenti, offrendo una riflessione pragmatica e coraggiosa.
1. La proposta CNMI–MIMIT: uno sguardo critico
Secondo Capasa, la filiera della moda è spesso vittima dello sfruttamento, del caporalato e del lavoro irregolare. L’albo dei fornitori certificati e le verifiche semestrali sarebbe la soluzione per tutelare i brand e la reputazione del sistema moda italiano FashionUnitedCorriere della Sera.
Tuttavia, la filiera è talmente frammentata, ogni brand si affida a migliaia di fornitori diretti, ciascuno con due o tre subfornitori – che risalire e controllare ogni anello è praticamente impossibile modemonline.com+9Corriere della Sera+9FashionUnited+9. Inoltre, secondo Capasa, il fenomeno dello sfruttamento nel settore sarebbe circoscritto: i lavoratori irregolari stimati tra i 30.000, su circa 600.000 addetti, rappresentano circa il 2,5 % della forza lavoro e non una piaga sistemica Corriere della Sera+2Pambianconews+2.
Ecco allora che la proposta rischia di essere un intervento eccessivo rispetto all’entità del problema, con il pericolo di generare altra burocrazia invece di interventi realmente efficaci.
2. Strumenti già esistenti: Ispettorato e Guardia di Finanza
Nel mio ragionamento originale sottolineavo: non serve inventare un nuovo ente quando esistono già garanzie istituzionali: Ispettorato del Lavoro e Guardia di Finanza.
Perché non sfruttarli davvero e al massimo delle loro potenzialità?
- Assumere e distribuire più ispettori del lavoro, in modo da aumentare il numero e la frequenza dei controlli.
- Potenziare la Guardia di Finanza per verifiche impreviste e a tappeto su aziende e filiere.
- Garantire presenza continua e dissuasiva contro possibili irregolarità, con sistemi di segnalazione rapida e coordinamento tra corpi.
Questi strumenti già operano, sono riconosciuti e non aumentano la complessità legislativa. Se ben coordinati, possono garantire una sorveglianza incisiva senza appesantire i brand o frammentare il sistema produttivo.
3. Limiti delle certificazioni private e soluzioni basate sui brand
La proposta di CNMI rischia di risolversi in una certificazione simile a una ISO o uno standard privato: un terzo che stabilisce criteri, spesso con rituali separati dai reali problemi, e che può diventare uno strumento utile ai brand per deresponsabilizzarsi.
Nel frattempo, la tracciabilità tecnologica evolve: compaiono iniziative come il Digital Product Passport (DPP), la green list dei fornitori e protocolli volontari nella moda italiana Vogue Business+2The Traceability Hub+2. Il Prefetto di Milano ha proposto un accordo volontario per la tracciabilità centralizzata, da cui emergerebbe “una green list” di fornitori approvati Vogue Business. In parallelo, l’UE sta introducendo strumenti di due diligence obbligatoria, che però — se limitati ai fornitori diretti, rischiano di non affrontare i veri rischi Vogue Business.
Questo evidenzia che:
- Le certificazioni private da sole non bastano.
- Serve responsabilità dirette e contratti efficaci tra brand e fornitori.
- Serve trasparenza della filiera, supportata da tecnologia, per evitare il sommerso.
4. Contratto di filiera vero: diritti e doveri per entrambe le parti
La vera rivoluzione – secondo me – passa da un contratto di filiera autentico: un accordo tra brand e fornitori che sancisca chiaramente diritti e doveri, obblighi di trasparenza e revisione, e un sistema sanzionatorio reale (es. rescissione immediata se si dimostra sfruttamento).
Questo tipo di contratto può includere:
- Obblighi di segnalazione legale e tracciabilità.
- Penali chiare o la rescissione del rapporto in caso di violazioni.
- Garanzie sul pagamento, sui tempi di consegna e sulla sostenibilità economica del rapporto.
Un approccio simile riduce la distanza tra il brand e i livelli produttivi, e incentiva comportamenti responsabili lungo tutta la catena.
5. Uso della tecnologia: portale digitale per la filiera
Un altro asse di intervento efficace è la digitalizzazione completa della filiera (un mio suggerimento chiave). Immagino:
- Un portale unico, accessibile solo agli organi statali competenti (Ispettorato, GdF).
- Nel quale i brand inseriscano tutti i livelli dei loro fornitori.
- Aggiornamenti obbligatori, con alert automatici su scadenze, cambi di sub-fornitore, situazioni a rischio.
In questo modo si garantisce:
- Un database dinamico centralizzato.
- Accesso riservato per le forze dell’ordine.
- Possibilità di controlli mirati e tempestivi.
La trasparenza diventa concreta, senza dover creare nuovi enti o albi pubblici.
6. Le preoccupazioni del mondo produttivo e le dinamiche del controllo
CNMI e Confindustria Moda hanno avanzato sette proposte al Parlamento (Budget Law), tra cui la certificazione della filiera, welfare aziendale, fondi per la promozione internazionale, misure per le imprese in difficoltà Corriere della Seramodemonline.com+1.
La proposta della certificazione è vista come un modo per dare “presunzione di legalità” alle aziende che vi aderiscono, e potenzialmente premiare contratti e relazioni di fiducia Pambianconews+1. Tuttavia, già oggi i piccoli produttori temono per la privacy e per la tutela della propria proprietà intellettuale, e temono che un sistema centralizzato possa esporre dati strategici The Traceability Hub.
Questo conferma che la via migliore è usare gli strumenti esistenti e i contratti privati, piuttosto che creare registri pubblici potenzialmente pericolosi.
7. Sintesi d’azione: tre leve concrete per il cambiamento
Ecco quindi le tre linee guida che propongo:
- Potenziare gli ispettori e la finanza: rafforzare la capacità di controllo reale, spingendo su prevenzione, visite a sorpresa, collaborazione istituzionale.
- Contratto di filiera reale: con clausole precise su tracciabilità, pagamenti, sanzioni, diritti e doveri tra brand e fornitori.
- Portale digitale riservato: dove i brand dichiarano tutta la filiera, accessibile agli organi di controllo per ispezioni efficaci e basate sui dati.
Questa strategia può garantire controllo, responsabilità, e ridurre i rischi senza generare burocrazia inutile o nuove responsabilità formali che si scaricherebbero sui brand.
La proposta CNMI, Ministero di creare un ente terzo per certificare la filiera, pur condivisibile nelle intenzioni, rischia di aggiungere complessità, generare certificazioni inutili e legittimare una deresponsabilizzazione diluita.
Invece, se vogliamo davvero tutelare la moda italiana, il suo Made in Italy basato su qualità, storicità e dignità del lavoro – servono interventi reali, concreti, già accessibili:
- Rafforzare gli strumenti istituzionali.
- Creare contratti veri, chiari.
- Digitalizzare seriamente la tracciabilità.
Solo così potremo dire con orgoglio: la filiera è italiana, etica e soprattutto sotto controllo – senza compromessi.
Se condividi questa visione, aiutami a diffonderla: lascia un commento con la tua opinione, condividi questo articolo con chi lavora nella moda o semplicemente con chi ama il Made in Italy autentico. Più ne parliamo, più possiamo spingere il cambiamento.
Con Amore,
Ornella