Pelletteria e Made in Italy: il buio che non ti raccontano
La pelletteria in Italia è diventata un tragico paradosso.
Da un lato, la spinta all’etica, alla sostenibilità e alla trasparenza; dall’altro, l’illegalità che ridisegna i limiti, i rapporti professionali, la manodopera.
Oggi rischio molto.
Perché sto per portarti in un territorio pericoloso, fatto di omertà e sfruttamento silenzioso. Sto per parlarti di un’eccellenza che sta morendo.
Ma anche della sua parte sana, quella che sogno di salvare.
Mi chiamo Ornella Auzino e sono una pellettiera digitale.
Cosa significa?
Produco borse conto terzi, nel ventre della pelletteria napoletana, amandone la storia e le tradizioni.
Produco borse per alcuni marchi della moda, collocati nella fascia del lusso.
E ho scelto di portare il mio lavoro on-line, tramite i miei canali digitali: attraverso questo blog, il mio canale youtube e le mie pagine social, ti racconto le dinamiche della produzione, le storie dietro i brand che scelgo di recensire e gli attori dei nostri comparti produttivi e creativi, attraverso le mie interviste dedicate.
Ho scelto, dunque, di aprire una finestra su un mondo pressoché sconosciuto, quello della pelletteria italiana e i suoi protagonisti.
Perché sconosciuto?
Perché la pelletteria è una bella storia da raccontare. Ma, come tutte le fiabe, anche questa oscilla tra il mondo immaginato e la realtà.
È fantastico entrare in una bottega del centro storico, magari in Toscana, e restare inebriati dall’intenso profumo di pelle e tintura, mentre l’artigiano ci racconta la storia del nonno, un tempo garzone appassionato.
Questo esiste. Ed è la nostra parte migliore.
Ma esiste anche molto altro.
Esistono fabbriche illegali che subordinano la qualità alla logica dei profitti, facendo pagare il conto alla manodopera sottopagata.
Esistono inflitrazioni mafiose all’interno di siti produttivi.
Esistono le aziende che mettono i lavoratori in una cassa integrazione fantasma, mantenendo attiva la produzione.
Esiste la contraffazione ed è uno dei giri d’affari più pericolosi del mondo.
Poi, esistono le aziende oneste e i produttori che sostengono la nostra eccellenza, in termini di qualità, etica e regolamentazioni.
Questi sono quelli che subiscono, maggiormente, la”crisi” qualora i tempi non siano fecondi.
Perché pagano le tasse.
Perché pagano i dipendenti.
Perché ricevono controlli costanti e rischiano la chiusura in caso di eventuali “mancanze” ai protocolli.
Io faccio parte di questo gruppo e ne sono fiera.
Perché credo che la nostra pelletteria abbia tutti i requisiti per splendere e farlo nel pieno dell’onestà. Intellettuale e sostanziale.
Pelletteria: il marcio sotto agli occhi di tutti
Esiste una grande distorsione nell’immaginario collettivo quando si pensa alla pelletteria e ai grandi brand che ne fanno parte.
Il Made in Italy è un’etichetta molto forte. Ma ormai è solo un’etichetta.
Dietro al Made in Italy può esserci una produzione eccellente; ma può anche celarsi una produzione seriale scadente, proveniente da fabbriche invisibili, cioè illegali o “para-legali”, perché lontane dai principali regolamenti.
Non possiamo fidarci più dell’etichetta e delle diciture da cartellino.
Dobbiamo, sempre e comunque, informarci sul prodotto.
Molti pensano che i brand del lusso, i grandi marchi che siamo abituati a vedere nelle vetrine in centro, siano auto-produttori delle loro borse. Cioè che i brand come Louis Vuitton, Gucci o Fendi producano nelle “loro” fabbriche.
Questa rappresenta una garanzia per il consumatore:
Perché Vuitton, autorevole e prestigioso, non potrebbe mai sottopagare gli operai oppure evadere i controlli dell’Asl.
Ma l’informazione sbagliata è alla radice.
I grandi marchi, ormai, affidano a terzi la produzione delle borse, così come quella di altri accessori.
La produzione viene esternalizzata e affidata a diverse aziende dislocate nei territori interessati.
Si tratta di produttori come me, che hanno costruito il proprio lavoro sul rapporto con i marchi.
Questo è un pezzo importante del “cammino” di una borsa, ossia della la sua filiera produttiva.
Ebbene, cosa sappiamo della filiera?
Il consumatore finale conosce l’azienda in cui è stata fatta la sua borsa Prada?
Certo che no.
Attorno a tutto questo, ossia alla nascita e alla distribuzione di una borsa, c’è un grande e scoraggiante vuoto.
Perché?
Perché non sempre conviene fare luce su tutte le aziende che compongono la filiera.
Sono diverse le inchieste sulle fabbriche a Prato che hanno coinvolto i grandi marchi della moda: molti capannoni cinesi sono stati chiusi (inchiesta ilSole24ore – Guardia di Finanza).
Altre sono state accusate di traffici illeciti di scarti tessili (IlSole24ore).
Inoltre, è consueta la pratica dell’ over-running, ossia la sovra-produzione da parte del terzista, che gli consente di avere “pezzi in più” da poter rivendere con formule piuttosto clandestine.
Come vedi, il marcio è esteso a tutta l’Italia e non solo alla Campania, che per decenni è stata marchiata come leader della contraffazione e del lavoro a nero.
La verità è che il nostro Paese, da diversi decenni, si è aggrappato ad alcune dinamiche grigie, come l’evasione fiscale e le relazioni di comodo.
E la pelletteria ha sempre fatto parte di quel mondo border-line, in cui il disonesto poteva accedere e monetizzare, perché c’era la grande etichetta Made in Italy a coprire la facciata, a presentarsi al mondo.
Ma ora questa definizione, forse, non significa più niente.
Il Made in Italy è stato svuotato da chi, per anni, ha campato sulle sue spalle.
Ed è un gran peccato, dal momento che il nostro scenario ha delle enormi potenzialità: da imprenditrice e da grande consumatrice, ho conosciuto giovani talenti ed esperti artigiani a cui non manca niente per eccellere.
Creatività e conoscenza sono il nostro valore aggiunto, e non possiamo rinunciarci. Non ancora.
Per cui, adesso, siamo ad un punto limite.
Le alternative sono due: agiamo subito; o moriremo tra dieci anni.
CERTIFICAZIONE DELLA FILIERA
La prima necessità della pelletteria è la certificazione della filiera.
Grazie ad una certificazione, il consumatore avrà a disposizione tutte le informazioni circa la provenienza della borsa che ha scelto: qual è il brand, in quale fabbrica è stata creata, con quali materiali, con quale indice di sostenibilità.
Insomma, una documento che attesti l’identità del prodotto e, di conseguenza, la sua legalità.
Se la certificazione di filiera fosse un obbligo, i prodotti falsi si ridurrebbero significativamente, così come il lavoro sommerso fomentato dagli imprenditori che si considerano scaltri.
Tutti sarebbero obbligati a fornire dati, nomi, protocolli e molto altro.
Quanto tempo ci vuole affinché diventi una realtà tangibile?
Pelletteria: è sempre questione di scelta
Ogni mese, ricevo diversi controlli in azienda.
Azienda sanitaria locale, ispettorato del lavoro, guardia di finanza, e via dicendo.
Ma ricevo anche i controlli privati, cioè l’audit da parte del marchio per cui produco: questo serve a controllare che tutta la linea stia procedendo bene e che non ci sono problemi.
Le aziende di cui abbiamo parlato prima, invece, non ricevono controlli.
Perché?
Semplice: non esistono.
Chi produce illegalmente in una garage del vesuviano non esiste agli occhi dell’ufficiale pubblico.
Per cui, zero tasse, zero contratti di lavoro, zero controlli sulle emissioni…
Solo introiti. Sebbene disonesti.
È davvero così difficile effettuare controlli?
Non parlo solo delle fabbriche fantasma, ma anche dei furbi del Made in Italy, quelli che mettono a lavorare a nero i ricettori di disoccupazione o del reddito di cittadinanza.
Ho alcune proposte.
- Digitalizzazione del sistema
Un’azienda che sta in regola con i contributi fiscali, la “burocrazia” energetica, i contratti lavorativi e altro, non avrà problemi a gestire permessi e “altre scartoffie” in un sistema digitalizzato.
Questo, al di là dei processi burocratici, permetterebbe una certificazione digitale del prodotto, che andrebbe ad essere uno strumento fondamentale della certificazione di filiera.
Inoltre, digitalizzare il sistema-produzione, permetterebbe anche un censimento delle aziende all’interno dei comparti. Pare proprio che, ad oggi, un vero e credibile censimento non esista affatto.
- Controlli semplici e mirati
Controllare gli imprenditori attraverso strumenti esterni, come le bollette dei distributori di energia, le quali sono un chiaro indice della presenza (o l’assenza) dell’attività lavorativa.
Esempio.
Al ridosso delle chiusure e delle limitazioni dovute alla pandemia, molte aziende sono state costrette a mettere i propri dipendenti a cassa integrazione.
Questo supponeva un arresto della produzione.
Bene.
Se, quindi, la Guardia di Finanza fosse andata a controllare i consumi energetici delle ultime fatture, avrebbe trovato un calo drastico dei consumi, giusto?
Questo controllo avrebbe accertato la chiusura dell’attività.
Se, al contrario, avessero trovato gli stessi consumi di sempre, allora avrebbe significato che l’attività produttiva non si era mai fermata. Come, di fatto, è avvenuto in molte aziende “furbe”, le quali hanno continuato a lavorare pur avendo l’intero organico in cassa integrazione. Magia!
- Lavoratori attivi nella denuncia
Sempre più spesso, leggo sui social “denunce” e invettive contro imprenditori e datori di lavoro, da parte di dipendenti o collaboratori che hanno ricevuto trattamenti poco etici o poco legali da parte dei superiori.
È giusto e doveroso denunciare. Ma non sui social.
Bensì all’ispettorato del lavoro.
Se vogliamo davvero che le cose cambino, dobbiamo sporgere denuncia agli organi competenti, affinché certi imprenditori abbandonino la logica dello sfruttamento e la speculazione sui rapporti lavorativi.
L’imprenditoria sana è fatta di persone che lavorano in sinergia con il proprio team, assumendosi tutte le responsabilità.
Ed è bene augurarci che anche dall’altro lato, quello dei dipendenti, ci siano le componenti necessarie: onestà, rispetto, dimensione umana.
Con il tempo, ho imparato che i rapporti lavorativi non portano a nulla, se alla base non si costruisce una “relazione”. Vera.
E questo ci porta, inevitabilmente, al prossimo ed ultimo punto della nostra discussione.
- L’urgenza di Fare Rete
Prima abbiamo parlato dei brand del lusso e dei rapporti con i terzisti, ossia i produttori che prendono in carico il lavoro manifatturiero.
È ovvio che non solo i marchi di lusso danno il lavoro alle aziende del territorio, ma anche brand minori.
Una volta fui contattata da un’azienda, la quale mi chiedeva di occuparmi di una produzione di borse.
Mi avrebbe pagato 15,00 euro a borsa, per un prodotto che, sul mercato sarebbe stato venduto a 250,00 euro. Lo so perché io stessa comprai quella borsa.
Ovviamente rifiutai quel lavoro.
Ma restava il fatto che qualcun altro, prima di me, non l’aveva rifiutato.
E manco il terzista successivo, visto che il brand ha continuato a produrre.
In sostanza, i terzisti non fanno rete.
Non esiste un network solido che possa proteggere il produttore dai prezzi al ribasso imposti dai marchi di moda.
Il prezzo non viene più fatto dal produttore, ma dal costo/minuto del brand.
E nessuno dice nulla. Nessuno fa nulla.
Se domani, da sola, chiudo le braccia in segno di protesta non otterrò nulla.
Ma se gran parte dei terzisti, domani, iniziassero a dire no ai lavori sottopagati, allora qualcosa si muoverebbe.
Perché, come diceva mia nonna, “Una noce dint’ a ‘o sacco, nun fa rummore” (una sola noce nel sacco, non fa alcun rumore).
Per cui, la mia richiesta va ai miei colleghi, agli imprenditori come me, i quali portano avanti con onestà e sacrificio grandi o piccole aziende…
Se ci mettiamo vicini, le voci risuoneranno più forti.
Fare Rete è necessario in un Paese che possiede una grande forza produttiva e, forse, il migliore know how manifatturiero.
Bisogna ripartire dalle aziende.
Con la speranza di averti conquistato un po’, o almeno di aver trasmesso qualche frammento della mia passione, ti saluto e ti auguro un buon proseguimento di giornata (o di nottata).
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